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di Rosanna Del Noce

Le aziende che cercano follower a tutti i costi rischiano di trovare il supporto di web agency pronte a dopare la presenza sulle piattaforme di social networking con il mercato nero 2.0.
Un recente studio condotto da Marco Camisani Calzolari, docente di comunicazione aziendale e linguaggi digitali all’università Iulm di Milano, rivela che alcune società hanno fino al 45% di follower che non si comportano come esseri pensanti ma come robot.
L’analisi, effettuata su un campione di account twitter gestiti da aziende, ha evidenziato che in sette casi su tredici fra le imprese internazionali più del 20% dei follower mostra i comportamenti di un bot: sono profili che sarebbero riconducibili non a persone, ma a software.
Il Professor Camisani Calzolari precisa che “Non possiamo essere certi che siano finti utenti, ma ne hanno le caratteristiche”. Questi utenti infatti non pubblicano post e sono sprovvisti di nome, foto e  amici.
Il Sole 24 Ore pubblica oggi un articolo di Luca Dello Iacovo in cui sono indicati alcuni strumenti per scoprire i robofollowers.
Il mercato nero 2.0 falsifica il valore del “capitale sociale” e abbassa drasticamente la qualità  relazionale delle aziende. Acquistare fan o follower, oltre che eticamente scorretto, è inutile ma soprattutto dannoso. É ormai noto che gli utenti della Rete condannano le scorciatoie e manifestano la loro disapprovazione con precise azioni che colpiscono la reputazione e i bilanci delle aziende. Questi utenti disdegnano le iniziative che puntano ad associarli a semplici numeri da controllare e spesso sono proprio loro a smascherare e a segnalare i tentativi di barare.
Scoprire poi che il 45% dei loro colleghi follower appartiene alla categoria del mercato nero 2.0 li solleciterà a smettere di seguire le società che ricorrono a questi espedienti.
“In questo momento – afferma il docente – c’è una sopravvalutazione del digitale. Ci si muove con logiche che fanno male al mercato. La corsa ai follower costa poco, ma è dannosa. Bisogna tornare alle origini. Costruendo delle piattaforme di proprietà delle aziende che permettano la condivisione e che usino i social network come cassa di risonanza. Oggi l’85% delle aziende non ha questa funzione”.
I social network possono essere certamente utilizzati come cassa di risonanza delle iniziative di condivisione, peccato che nelle aziende non si sia ancora sviluppata un’autentica cultura della condivisione. Questa cultura implica un’evoluzione degli aspetti relazionali, cognitivi e generazionali.
Non credo che la causa di alcune errate strategie risieda nella sopravvalutazione del digitale ma nel mancato ascolto delle dinamiche che caratterizzano la presenza degli utenti (quelli veri!) negli ambienti  2.0.

Queste dinamiche potrebbero tradursi in opportunità se le aziende smettessero di affidarsi a modelli di comunicazione obsoleti ed iniziassero ad investire seriamente sulla formazione finalizzata a sviluppare internamente modelli, competenze e risorse che conferiscono alle società una dimensione 2.0.